Con la Legge 4 agosto 2017, n. 124 per il mercato e la concorrenza, il Legislatore ha provveduto a “tipizzare” compiutamente lo schema negoziale della locazione finanziaria, definendolo come “il contratto con il quale la banca o l’intermediario finanziario iscritto nell’albo di cui all’articolo 106 del testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimento, e lo fa mettere a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto. Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l’obbligo di restituirlo.(art. 1 comma 136)

Tale definizione fuga ogni dubbio residuo circa il possibile carattere trilaterale del negozio, aderendo invece al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità volto, da un lato, a ribadire l’estraneità del fornitore / costruttore rispetto al regolamento dei rapporti tra concedente ed utilizzatore e, dall’altro lato a valorizzare il dato economico e teleologico dell’operazione di finanziamento alla luce del collegamento negoziale tra il contratto di locazione finanziaria ed il contratto di compravendita.

L’impegno dell’intermediario finanziario abilitato si consuma nell’obbligo di acquistare o far costruire un bene in ottemperanza alle indicazioni e alla scelta dell’utilizzatore al fine di metterlo a disposizione di quest’ultimo per un dato tempo a fronte di un corrispettivo calibrato sul prezzo di acquisto.

I rischi inerenti il bene (dal deterioramento al perimento del medesimo, anche dovuti a difetti funzionali o a mancanza di idoneità) sono stati allocati dal Legislatore in capo all’utilizzatore, con ciò aderendo alla prassi contrattuale invalsa da tempo nell’ambito degli schemi contrattuali più utilizzati dal mercato.

La norma di legge ha reso più labile la risalente distinzione di scuola tra leasing traslativo e di godimento sancendo il diritto dell’utilizzatore, alla scadenza del contratto, ad acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, a restituirlo. Nulla viene specificato in merito ai termini dell’opzione, riservandone dunque la disciplina alla regolamentazione pattizia.

La vera novità della normativa in oggetto tuttavia va rinvenuta nella definizione dl “grave inadempimento” dell’utilizzatore che ricorre nel caso in cui quest’ultimo ometta il pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i leasing immobiliari, ovvero, per ciò che attiene agli altri contratti di locazione finanziaria, di ameno quattro canoni mensili anche non consecutivi o un importo equivalente.

Integrato il grave inadempimento, la facoltà del concedente di sciogliersi dal vincolo contrattuale incontra dei limiti precisi nel suo esercizio. Il concedente, infatti, ha diritto alla restituzione del bene salvo “… corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, […] dedotte la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, nonché  le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita…”.

Il Legislatore, nel tentativo di calmierare ab origine le frequenti controversie nascenti all’atto della risoluzione del contratto di leasing, ha previsto che in caso di vendita del bene, il valore del cespite debba risultare dalle rilevazioni di mercato o sulla base di una stima effettuata da un perito scelto dalle parti. Resta inteso che laddove il valore di realizzo della vendita non soddisfi pienamente l’eventuale maggior dovuto a beneficio del Concedente, questi potrà coltivare il credito residuo per la differenza.

In considerazione della ratio legis, che parrebbe volta a garantire maggiore tutela all’utilizzatore, i requisiti del grave inadempimento più che integrare una clausola risolutiva espressa sembrano assurgere a condizioni legittimanti l’ordinaria azione di risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c.. Nel silenzio della legge, tuttavia, un chiarimento verrà probabilmente fornito dalla giurisprudenza.

(A cura dell’ Avv. Michele Borlascamichele.borlasca@studiozunarelli.com)

CategoryDiritto civile

Seguici sui social: